Il Monzù, parola napoletana dal francese
"Monsieur" (Signore) era un appellativo dato anticamente ai cuochi
professionisti (a Palermo ed in Sicilia, erano invece detti Monsù).
La cucina rappresentata da questi professionisti era il
punto di unione tra la cucina francese e quella napoletana. Secondo J.C.
Francesconi, autrice di un ponderoso volume sulla cucina
napoletana, tra essi si distinsero particolarmente, per la loro
bravura, Abruzzesi e Siciliani.
Chiamati talvolta con il nome di battesimo ed il cognome
della famiglia presso cui prestavano servizio, altre volte con nomignoli
suggestivi.
Alcuni di loro raggiunsero grande fama fino ad essere
trattati alla stregua di artisti ed i nomi di alcuni di loro sono giunti fino a
noi:
Giuseppe Lazzaro detto Monzù Peppino,
Nicola ‘e Tricase,
Francesco è Pavuncelli,
Totonno ‘e Targiani,
Cunfettiello ‘e Barracco,
Terramoto ‘e Gerace,
Monzù Attolini detto Vincenzo ‘e Cumpagna,
Aquilino Beneduce detto Monzù ‘e Pignatelli,
Raffaele, Rafele, dei Serra di Cassano,
Monzù Gerardo Modugno.
Per estensione, si chiama ancora oggi ‘cucina dei Monsù’ la raffinatissima
cucina della tradizione aristocratica napoletana e siciliana, che si va
purtroppo perdendo, e nella quale è presente l’essenza
dell'eccellenza e della qualità della cucina dei monsù: una "fusion",
come si direbbe oggi, in cui i piatti della tradizione francese si
trasformarono in piatti "alla napoletana”, in cui pietanze semplici e
popolari si sono mutate in simboli della cultura e della storia partenopea.
Il ragù, la genovese, il sartù di riso, il gattò di patate, i crocché, il
babà, sono diventati patrimonio culturale della cucina tipica napoletana, nella
quale si respira il vissuto dei nostri bisnonni, dei nostri nonni, dei nostri
genitori e si costruisce quel sentimento di gioia di vivere che caratterizza
ancora oggi l’anima del popolo napoletano.
A loro è dedicata una filastrocca napoletana:
“Munzù, munzù,
munzù,
è gghjuta 'a
zoccola 'int'a 'o rraù.
'A signora nun 'o
vo' cchiù,
magnatillo tutto
tu.”
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